SENZA L'EUROPA NON SI VINCE LA FAME
di Emma Bonino
SOMMARIO: L'intervento straordinario italiano contro lo
sterminio per fame rischia di essere vanificato se non vi sarà una
mobilitazione degli altri paesi europei. Secondo l'autrice è
necessario ribadire la richiesta di uno stanziamento straordinario
della Comunità europea di 5 miliardi di dollari che devono aggiungersi
all'1% del PLN richiesto dalla Commissione Brandt per l'aiuto ai paesi
sottosviluppati. Bisogna sviluppare l'iniziativa tesa ad investire il
Consiglio di sicurezza dell'ONU sul problema della fame che deve
essere considerata come una minaccia grave alla pace e alla sicurezza
del mondo. (Notizie Radicali n 265 del 28 novembre 1985)
L'intervento italiano, dallo sforzo pur straordinario di un solo
paese, rischia di essere completamente vanificato, non solo per i
limiti oggettivi compresi nella legge 73 -perché appunto la classe
politica non avendo capito il respiro e le dimensioni di questa
battaglia ne ha ridotto la portata politica oltre che le necessità
economico-finanziarie- ma perché la dimensione di questa battaglia è
necessariamente internazionale, o perlomeno europea, ed è questa una
necessità di dimensione obbligata se noi riflettiamo a semplici cifre.
Intanto è obbligata a causa dell'entità della tragedia: nella sola
Africa, il numero degli affamati ha raggiunto ormai i cento milioni di
persone (e voglio ricordare che il nostro slogan è «3 milioni di vivi
subito»), il 20% degli africani non riesce a trovare il cibo
necessario per sopravvivere in buona salute, la produzione dei cereali
nei paesi produttori è diminuita negli ultimi 15 anni del 2%. L'entità
quindi delle risorse da impiegare in questa guerra impone una
mobilitazione internazionale, perché altrimenti lo sforzo, pur
eccezionale, di un solo paese verrebbe vanificato, ricondotto entro i
canali fallimentari della tradizionale politica della cosiddetta
cooperazione. Tutto questo accadrà se non riusciremo a rivoluzionare
la stessa impostazione politica che attualmente caratterizza l'aiuto
pubblico e lo sviluppo: la vicenda della legge 73 ne è una riprova.
Forte non è responsabile Certo, il rischio che noi abbiamo di fronte e
che rispecchia la tendenza degli altri paesi o degli organismi
internazionali è quello della diminuzione dei fondi: la legge 73
rischia di venir risucchiata in una gestione fallimentare e di non
aver la forza di trainare gli altri paesi, di sconvolgere questa
tendenza. Da qui la necessità del nostro intervento, della nostra
azione politica. Certo, ci saremmo aspettati più coraggio da parte di
chi è stato chiamato a dare esecuzione al progetto politico costruito
in cinque anni duri di lotta, certo ci saremmo aspettati più coraggio
dal sottosegretario Forte, ma io credo che non possiamo pretendere
eroismi, dobbiamo invece esigere e far votare nuove, precise,
vincolanti leggi che consentano anche alle attuali classi dirigenti di
esprimere una politica di vita, piuttosto che raccogliere sempre e
solo fallimenti. Ed è, questa, una dimensione di mobilitazione
internazionale o almeno europea. Innanzitutto dobbiamo immediatamente
sgombrare gli alibi che danno buona coscienza a buon mercato a coloro
che ci raccontano, da destra come da sinistra, che il problema non è
la quantità delle risorse e dei denari. Io credo che bastino poche
centinaia di cifre per smontare questi alibi. Negli ultimi dieci anni,
nonostante la crescita monetaria dell'aiuto globale ai paesi in via di
sviluppo che è passato da venti a circa cento miliardi di dollari, in
realtà il valore reale di questo aiuto è gravemente diminuito a causa
di fattori che conosciamo bene: l'inflazione, il ridotto potere di
acquisto delle esportazioni, l'ascesa del dollaro. Ma l'irrisorietà di
questo aiuto del mondo intero, che in totale è di cento milioni di
dollari, emerge ancora più chiaramente se confrontata non solo,
ovviamente, con gli ottocento miliardi di dollari spesi nel mondo per
gli armamenti, ma se confrontata con gli 895 miliardi di dollari del
debito totale dei paesi in via di sviluppo. Credo che sia chiaro qual
è l'operazione dal risultato di questa semplice cifra. 5 miliardi di
dollari Dobbiamo riacquistare il coraggio di tornare a dire che oggi
l'aiuto comunitario essenziale per un intervento straordinario contro
lo sterminio per fame è sull'ordine dei cinque miliardi di dollari. Lo
avevamo già detto, lo ha detto il Parlamento nella risoluzione
Pannella approvata dal Parlamento europeo nel 1981, con la quale si
chiedeva, appunto, uno stanziamento ordinario di cinque miliardi di
dollari ai quali andavano aggiunti gli stanziamenti dei paesi singoli
della comunità, per valori che raggiungessero subito, come chiede la
stessa commissione Brandt, l'1% del prodotto interno lordo. Se questa
è la dimensione delle cifre rispetto alle quali possiamo forse sperare
di invertire una tendenza, voi vi rendete conto evidentemente del
fatto che abbiamo conquistato in Italia una pietra, ma che il muro
della solidarietà, il muro rispetto alla guerra, allo sterminio e
all'olocausto è tutto da ricostruire. C'è un secondo elemento che mi
preme comunicarvi: ed è il rapporto tra lotta allo sterminio per fame
e al sottosviluppo, minaccia alla pace e quindi lotta in positivo per
conquistare la pace, e lotta in positivo per consentire lo sviluppo
democratico di quei paesi in via di sviluppo che vorrebbero tentare
questa strada. Non è una novità: questi precisi elementi erano
contenuti nel rapporto della commissione Carter, in qualche modo
contenuti nel rapporto Brandt, e chiaro, a tutte lettere, («il nuovo
nome della pace si chiama sviluppo») nella Populorum Progressio.
Quindi dovremmo essere uniti, e tutte le culture, dai cattolici ai
socialisti, tutti quanti dovremmo essere d'accordo su queste tesi.
Parrebbe: ma non è così. Questa relazione tra fame e guerra, tra fame
e instabilità, tra sottosviluppo e necessità di gestione autoritaria e
dittatoriale del paese stesso non è stata recepita, per esempio, da
tutto il movimento europeo. Il movimento pacifista Il movimento
pacifista del Nord è, in realtà, un movimento eurocentrico, che ha una
visione eurocentrica della pace e non si accorge neppure che è
inconsapevolmente razzista. Perché se la pace è quella bianca,
nordista, europeista, è vero che noi siamo in pace. Ma se noi
consideriamo la pace non solo come assenza di guerra nel nostro
piccolo paese, ma come possibilità di sviluppo, e soluzione non armata
dei conflitti, credo che dobbiamo tener conto che in questi 30 anni di
pace europea e nordista, nel Sud del mondo abbiamo avuto 150 guerre
convenzionali con 20 milioni di morti. Rispetto a questo confronto,
qual è oggi la minaccia alla pace, quali sono le guerre in corso?
Giustissima la lotta contro le ami nucleari: ma certo dobbiamo
renderci conto che di fronte a questa probabile catastrofe futura,
esiste una guerra oggi in corso: che sia una guerra con armi
convenzionali o che sia una guerra alimentare vi assicuro, e lo
sappiamo tutti, che per chi muore non è così importante sapere come
muore. Il consiglio di sicurezza Voglio inserire in questo congresso,
che è il congresso del diritto, e di ciò che si deve creare come nuovo
diritto un'altra indicazione, perché se è vera questa nostra tesi, del
rapporto tra sterminio per fame e instabilità e potenzialità di
conflitto, allora esiste una controparte precisa internazionale,
unica, che è il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite. Insomma,
anche lì è una intuizione nostra, l'intuizione della risoluzione
storica -definita così da Cheysson, allora ministro degli Esteri
francese- del Parlamento europeo del 1981, che chiedeva appunto di
investire il Consiglio di sicurezza del problema della fame e del
sottosviluppo in considerazione del loro essere minaccia alla pace e
alla sicurezza internazionale, assegnando così alla fame la giusta
dimensione ela giusta importanza politica. Se noi ci riferiamo
all'art. 25 della carta delle Nazioni Unite, sulle misure obbligatorie
e vincolanti per i paesi delle Nazioni Unite che il Consiglio di
sicurezza può e deve prendere per sedare, ricomporre o prevenire
conflitti armati, l'articolo 25 nulla dice, ma forse perché scritto
tanti anni fa. Ma noi sappiamo che la giurisprudenza della Corte
internazionale dell'Aia attribuisce al Consiglio di sicurezza anche i
poteri residui e cioè possibilità di decisioni vincolanti per
qualsiasi iniziativa che possa ripristinare pace e sicurezza. Insomma,
credo che sia necessaria -e mi sento impegnata a farlo- una
riflessione dei giuristi del diritto internazionale per lo sviluppo di
una giurisprudenza che crei regole certe di convivenza che devono
essere basate sul diritto e non sulle armi. Non si tratta di prevedere
aggiustamenti o miglioramenti in un settore piuttosto che in un altro:
dobbiamo affermare una volontà politica nuova che ponga l'azione
straordinaria finalizzata a salvare dalla morte milioni di persone
allo stesso livello, almeno, delle azioni e preoccupazioni per la
difesa militare. La conferenza internazionale E' necessario quindi
concepire azioni internazionali, concepire organizzazioni
internazionali con un prestigio adeguato agli obiettivi che abbiamo
individuato. Da qui il tentativo di creare il Consiglio internazionale
di FD: l'organizzazione cioè che tenta di passare dalla sottoscrizione
del Manifesto dei Premi Nobel ad un'organizzazione politica dei Premi
Nobel, di capi di Stato, di personalità politiche e religiose. FD
funziona come segretariato internazionale a gruppi in varie nazioni, e
per ora il tentativo è stato quello di creare questa organizzazione
politica che abbia in prospettiva la capacità di aprire un dibattito
politico serio con le altre organizzazioni internazionali, come
l'Internazionale socialista, in cui il massimo dell'apertura e
dell'approfondimento di analisi si è fermato al rapporto Brandt del
1981, o l'Internazionale democristiana. In questa struttura sono
organizzati già una ventina di Premi Nobel, da Perez Esquivel a Wald,
a Leontief, a Linus Fowley, a Salam ed altri; si sono organizzate e
intendono lavorare assieme personalità politiche, primo fra tutti (ed
è stato per me fonte di speranza e a lui va tutto il mio
ringraziamento), il presidente Pertini, che si è impegnato per i
prossimi anni ad essere l'ambasciatore della lotta alla fame e per la
pace, l'ambasciatore delle iniziative e delle proposte che riusciremo
a mettere insieme. L'obiettivo che mi sono data è di convocare una
conferenza internazionale a Roma nelle prime settimane dell'86 che, a
cinque anni dal Manifesto dei Nobel, faccia non solo il punto della
situazione, ma che, riunendo i capi di Stato dei paesi più coinvolti o
più sensibili, i giuristi, i responsabili delle Nazioni Unite, produca
un documento politico che possa essere il fondamento teorico nonché un
indicatore di obiettivi della nuova, necessaria azione internazionale.
I primi contatti avuti con le massime autorità politiche e religiose
del nostro paese e di altri numerosi paesi africani e dell'America
Latina sono positivi. Contestualmente stiamo organizzando un albo di
parlamentari di tutto il mondo che siano disponibili a sostenere nel
loro paese questa iniziativa e le prossime, ad essere punto di
riferimento dei gruppi che a livello nazionale si andranno, mi auguro,
via via costituendo. Se volete, queste le scadenze e gli obiettivi. Ma
giacchè parlo agli amici, ai compagni radicali e perché con voi voglio
continuare questa strada, il mio problema è questo: ce la farò, ce la
faremo? dove troveremo le centinaia di milioni necessari a questa
campagna? a chi chiedere un aiuto? a questo partito che non ce la fa
più? a chi chieder d'altri? come faremo, in termini di energie, di
dislocazioni anche territoriali? E' una scelta difficile, una
scommessa, credo, necessaria, pena il fallimento politico già adesso,
perché senza di questo noi rischiamo di ritornare al dibattito degli
esperti. Ce la faremo? La meta è certamente lontana, il cammino
sicuramente difficile, ma diceva un poeta che provare è debito. Io
credo, spero, che lo faremo insieme. Buon lavoro. |